La settimana della moda di Parigi ha chiuso quella che potrebbe essere ribattezzata la “guerra delle Fashion week”, e che vede contrapposte fra loro, oltre alla Ville Lumière, anche Milano, Londra e Parigi. Ad alimentare la sfida dell’alta moda ci hanno pensato le polemiche, con l’attacco della stampa inglese nei confronti della moda italiana, che è stata definita superata per via della rivisitazione nostalgica degli anni ’70 e per l’età media, piuttosto alta, dei suoi protagonisti.

Di pari passo con le polemiche durante le Fashion week vanno i tweet, i post e in generale il social sharing via web, che anima un intenso traffico di scambio di opinioni e pareri. Questo flusso ha dato vita ad un nuovo campo della comunicazione, che si sta traducendo in economia settoriale, relativa al campo della moda. Tutto ciò porta ad ampliare il settore dell’economia e attraverso i social network porta ad aumentare gli introiti ma non solo, anche le lauree in economia si arricchiscono di nuove regole di mercato. Anche i master in economia più aggiornati, infatti, trattano questi nuovi argomenti appunto perché i social media costituiscono una nuova vetrina che corre il rischio di essere altamente virale, soprattutto se consideriamo il fatto che ognuno di noi ha in tasca uno smartphone capace di andare su facebook, condividere e twittare ogni cosa e ogni messaggio.

Molto discusso proprio sui social network è stato l’intervento di Alexander Fury, nato come fashion blogger e ora diventato fashion editor del “The Indipendent”; nel suo editoriale, Fury ha criticato l’assenza di “aria fresca” nella moda italiana, nella quale dominano i designer attempati. A sua volta, anche il pensiero di Fury è stato criticato, in quanto attacca un’idea di moda superata che però è lui stesso a portare avanti, distinguendo una dall’altra le mode nazionali senza tener conto che, con la globalizzazione, il settore è mutato profondamente e i molti confini sono stati abbattuti.

In quest’epoca non esistono più le mode legate alle nazioni, mentre ha maggior senso un discorso di più ampio respiro, teso a confrontare le mode per continenti, ad esempio quella europea paragonata a quella americana. Le differenze di stile, in questo caso, possono essere rimarcate e, volendo muovere un’accusa ad ogni costo, si può sottolineare la tendenza degli americani ad affidarsi ad un genere piuttosto basico, fatto di t-shirt e jeans.

Per quanto riguarda l’Europa, a non attraversare un buon momento è la Gran Bretagna – un tempo celebrata per i tessuti pregiati – la cui industria tessile arranca, e in molti puntano il dito contro la politica poco lungimirante in questo settore di Margareth Thatcher. La Francia, invece, ha dismesso l’industria per rilanciare i laboratori artigianali, addirittura promuovendo una legge in loro tutela che li definisce “patrimonio nazionale”. L’industria italiana, infine, produce la moda di gran parte del mondo.

In questo scenario iper-globalizzato, i designer si sono mescolati a tutte le latitudini e un esempio può aiutarci a capire meglio ciò di cui parliamo; l’italiano Italo Zucchelli è il disegnatore della moda uomo di Calvin Klein, marchio americano, mentre lo statunitense Marc Jacobs è stato per 15 anni la figura creativa di riferimento di Louis Vuitton, brand francese.

I nostri cugini d’oltralpe non hanno paura di affidarsi alla creatività che viene da altri Paesi, come dimostrano i marchi Rochas e Givenchy, che hanno messo il settore creativo nelle mani di due italiani, Alessandro Dell’Acqua e Riccardo Tisci. Insomma, la moda italiana non è affatto antiquata, come sostenuto da Fury, ma anzi va a rinforzare i brand avversari che si danno battaglia nelle “Fashion week”.